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LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE E LA MODULAZIONE DELL’OBBLIGO DI ESERCITARE L’AZIONE PENALE: IL PUNTO DI VISTA DELL’OSSERVATORIO D.LGS. 231/2001

LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE E LA MODULAZIONE DELL’OBBLIGO DI ESERCITARE L’AZIONE PENALE: IL PUNTO DI VISTA DELL’OSSERVATORIO D.LGS. 231/2001[1]

THE SEPARATION OF CAREERS AND THE MODULATION OF THE OBLIGATION TO EXERCISE CRIMINAL ACTION: THE POINT OF VIEW OF THE OBSERVATORY OF LEGISLATIVE DECREE 231/2001

La riforma dell’assetto costituzionale promossa dall’UCPI interessa anche l’ente incolpato e il suo difensore. Gli interventi promossi con Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare muovono dall’indifferibile necessità di realizzare i principi espressi nel Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. Le stesse considerazioni ed esigenze si ripropongono nel procedimento all’ente acutizzate da un testo normativo frammentario che ha prodotto una giurisprudenza ancora meno garantista. A sostegno dell’iniziativa politica dell’UCPI si pone l’Osservatorio D.Lgs. 231/2001.

The constitutional reform promoted by the UCPI also affects the accused entity and its defender. The interventions promoted with the proposed constitutional law of popular initiative stem from the imperative need to implement the principles expressed in the Manifesto of liberal criminal law and due process. The same considerations and needs are repeated in the proceedings against the body, sharpened by a fragmentary legislative text that has produced an even less guarantee-based jurisprudence. The Observatory of Legislative Decree 231/2001 is in support of the political initiative of the UCPI.

SOMMARIO: 1. Introduzione. Le linee essenziali della Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. 1.1. I fondamenti della c.d. “separazione delle carriere”. 1.2. Il valore finale da garantire: il giusto processo. – 2. L’identità tra la funzione di accusa e quella di decisione nel procedimento penale all’ente. 2.1. Il pubblico ministero si fa giudice (e legislatore). 2.2. Il giudice si fa pubblico ministero. – 3. Conclusioni.

  1. Introduzione. Le linee essenziali della Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. I temi dell’organizzazione giudiziaria si mantengono stabilmente al centro dell’attenzione e del dibattito politico-culturale. Da tempo, avvocatura e magistratura si collocano, infatti, su posizioni antitetiche quando si affronta il delicato tema della magistratura e della sua organizzazione. Dall’ultimo decennio del secolo scorso a oggi, «la comunicazione tra queste due componenti della vita giudiziaria s’è fatta difficile e complicata». Proprio sull’organizzazione degli uffici della magistratura essa è, infatti, divenuta «terreno fertile di fraintendimenti e diffidenze reciproche»: «alla ferma determinazione degli avvocati nell’esigere la separazione delle carriere, si oppone la pervicacia della magistratura associata nel conservare lo status quo»[2].

Uno degli ultimi atti, in ordine di tempo, di questo contrasto è rappresentato dalla Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, recante «norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura», articolata e promossa dall’Unione delle camere penali italiane e presentata alla Camera dei deputati nella XVII legislatura il 31 ottobre 2017[3]. Le linee essenziali di questa Proposta sono così sintetizzabili.

  • L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere (art. 104 co. 1 Cost. come sostituito con art. 3 co. 1 della Proposta). Il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente (art. 87 co. 10 Cost. come integrato con art. 1 della Proposta), debitamente separati.
  • Del Consiglio superiore della magistratura giudicante fa parte di diritto il Primo presidente della Corte di cassazione (art. 104 co. 2 Cost. come sostituito con art. 3 co. 2 della Proposta). Gli altri componenti sono scelti, per la metà, tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l’altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili (art. 104 co. 4 Cost. come sostituito con art. 3 co. 4 della Proposta). La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari universitari di materie giuridiche a tutti i livelli della magistratura giudicante (art. 106 co. 3 Cost. come sostituito con art. 7 co. 2 della Proposta). Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali né fare parte del Parlamento o di un Consiglio regionale o provinciale o comunale ovvero di un ente di diritto pubblico (art. 104 co. 7 Cost. come integrato con art. 3 co. 6 della Proposta). Spettano al Consiglio superiore della magistratura giudicante, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei giudici. Altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale (art. 105 Cost. come sostituito con art. 4 della Proposta).
  • Del Consiglio superiore della magistratura requirente fa parte di diritto il Procuratore generale della Corte di cassazione. Gli altri componenti sono scelti, per la metà, tra i pubblici ministeri ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l’altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. Durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti agli albi professionali né fare parte del Parlamento o di un Consiglio regionale o provinciale o comunale ovvero di un ente di diritto pubblico. Il Consiglio elegge un vicepresidente tra i componenti designati dal Parlamento (art. 105-bis come inserito con art. 5 della Proposta). Spettano al Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati requirenti. Altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale (art. 105-ter Cost. come inserito con art. 6 della Proposta).
  • Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati (art. 106 co. 1 Cost. come sostituito con art. 7 co. 1 della Proposta). I magistrati giudicanti e requirenti sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione rispettivamente del Consiglio superiore della magistratura giudicante o del Consiglio superiore della magistratura requirente (art. 107 co. 1 Cost. come integrato con art. 8 co. 1 della Proposta).
  • Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge (art. 112 Cost. come integrato con art. 10 della Proposta).

1.1. I fondamenti della c.d. “separazione delle carriere”. La Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare è, principalmente, diretta a concretizzare quella che, nel dibattito sull’argomento, si tende a indicare con l’espressione “separazione delle carriere”. Per uscire da prospettazioni non adeguate dei problemi e per affrontare questa analisi in modo appropriato è utile fissare qualche premessa per sgombrare il campo da equivoci ricorrenti.

Il termine “carriere” è, invero, limitativo e non restituisce in modo preciso e completo i fondamenti della petizione di separazione. La questione non è, in breve, se i magistrati dell’accusa e quelli della decisione siano da sottoporre a regimi eterogenei per il progresso delle rispettive carriere. La questione è, in termini più ampi, se le due categorie di magistrato debbano appartenere a differenti organizzazioni di ordinamento giudiziario e, prius, personificare differenti configurazioni istituzionali[4], separando le organizzazioni ordinamentali dei magistrati dell’accusa e di quelli della decisione[5].

Sono, così, da respingere le posizioni di quanti tendono a serbare una netta distinzione tra le questioni di ordinamento giudiziario e quelle di normativa processuale penale. È, sul punto, paradigmatica la formula programmatica dell’Associazione nazionale magistrati: «riformare il processo, non il giudice» (rectius, il magistrato). Queste posizioni scontano, infatti, «un marcato errore di portata non solo teorica, ma soprattutto pratica. Secondo un grande insegnamento (da Francesco Carnelutti a Gaetano Foschini e Gian Domenico Pisapia), oggi purtroppo assai poco tenuto presente, il processo penale deve trovare la propria disciplina nell’integrazione delle norme ordinamentali e processuali. Anche da questa integrazione dipende spesso l’efficacia pratica dell’amministrazione della giustizia»[6].

Ciò precisato, la separazione delle organizzazioni ordinamentali si propone di affrontare e di risolvere un problema fondamentale: l’identità, sul piano dell’ordinamento, delle due categorie di magistrato, favorita dall’unicità organizzativa, e gli effetti, ormai intollerabili, che la stessa produce sul piano delle garanzie processuali. È appena da osservare che si tratta «non già di notazioni politico-ideologiche innocue, ma di un’opzione che informa l’operatività giudiziaria a una concreta, precisa caratterizzazione»[7].

La ragione della natura deteriore di questa caratterizzazione identitaria è, a più riprese, ribadita nella Relazione accompagnatoria alla Proposta. Essa alloca «nella figura stessa di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e pubblici ministeri. […] Che tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l’arbitro e il giocatore». Il profilo di sofferenza di questa caratterizzazione identitaria «non è soltanto quello dell’“amicizia” in senso psicologico (riassunta nelle consuete espressioni: “pubblici ministeri e giudici prendono il caffè insieme” o “si danno del tu”), ma soprattutto quella dell’assenza di una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta all’efficienza e all’equilibrio di ogni sistema ordinamentale e istituzionale democratico, complesso e aperto»[8]. In breve, l’«assunzione da parte dei magistrati […] di un’identica cultura del processo visto come strumento di contrasto al crimine» fa sì che «pubblico ministero e giudice pens[i]no entrambi di essere impegnati […] nella medesima “lotta” contro questo o quel “fenomeno criminale”»[9]. Così, «il giudice non potrà mai essere terzo»[10].

1.2. Il valore finale da garantire: il giusto processo. Il punto di partenza, nonché «cuore della progettata riforma “epocale”»[11], è infrangere l’identità, presente nell’attuale quadro costituzionale, ordinamentale e processuale, tra la funzione di accusa e quella di decisione. Infatti, le stesse «sono radicalmente incompatibili: non possono essere concepite come due sotto-funzioni di una medesima funzione e neppure possono vedere gli organi dell’una e dell’altra accomunati in un’unica organizzazione ordinamentale»[12]. Dunque, solo mediante la separazione delle organizzazioni «sarà preservata quella condizione essenziale che i pensatori dell’illuminismo, cultori della separazione dei poteri, chiamavano “inimicizia”, ovvero quel sentimento che fa sì che un potere controlli l’altro e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di “amicizia” ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni»[13].

Il valore finale da garantire è, quindi, il giusto processo nell’essenzialità sancita all’art. 111 Cost.[14]. In definitiva, «la separazione delle carriere serve a rendere il processo penale più equo»[15], «senza coltivare partigianerie di sorta e senza piegarsi a esigenze e interessi della più varia natura»[16].

2.L’identità tra la funzione di accusa e quella di decisione nel procedimento penale all’ente. Quelle appena cennate sono – rectius, dovrebbero essere – cose risapute. Tuttavia, le prassi giurisprudenziali, «nel succedersi di vicende inesauste e invero esasperanti di rinnovamenti e di riflussi, non consentono di figurare assetti consolidati su cui adagiarsi»[17]. Ciò, per vero, nel contesto del procedimento penale a carico tanto della persona fisica quanto di quella giuridica. Rispetto a quest’ultima in misura più patente, inter alia, in sede di annotazione dell’illecito amministrativo (art. 55 d.legisl. 231/2001)[18] e di decisione (artt. 66-70). È in queste sedi che sembra, infatti, profilarsi, più visibilmente, il problema del difetto di separazione tra magistrati di accusa e di decisione.

2.1. Il pubblico ministero si fa giudice (e legislatore). Alla luce degli unici dati disponibili e al netto delle inevitabili approssimazioni, risulta, rispetto all’annotazione dell’illecito amministrativo, quanto segue.

Nel 2013, a fronte di 955.236 procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato a carico di persone fisiche adulte, risultano annotati nel medesimo registro 492 procedimenti a carico di enti. Nel 2014, a fronte di 1.005.824 procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato a carico di persone fisiche adulte, risultano annotati nel medesimo registro 473 procedimenti a carico di enti. Nel 2015, a fronte di 972.964 procedimenti iscritti nel registro delle notizie di reato a carico di persone fisiche adulte, risultano annotati nel medesimo registro 427 procedimenti a carico di enti[19].

Anche atteso che non tutti i reati sono anche reati-presupposto della responsabilità dell’ente, il rapporto non varia in misura apprezzabile. Preso, infatti, ad esempio il delitto di corruzione, che dal 2001 è anche reato-presupposto, emerge quanto segue. Nel 2013, a fronte di 1.009 procedimenti definiti nei confronti di persone fisiche adulte imputate di corruzione, risultano definiti 483 procedimenti nei confronti di enti incolpati degli illeciti amministrativi di cui all’art. 25[20]. Nel 2014, a fronte di 1.091 procedimenti definiti nei confronti di persone fisiche adulte imputate di corruzione, risultano definiti 464 procedimenti nei confronti di enti incolpati degli illeciti amministrativi di cui all’art. 25. Nel 2015, a fronte di 1.042 procedimenti definiti nei confronti di persone fisiche adulte imputate di corruzione, risultano definiti 249 procedimenti nei confronti di enti incolpati degli illeciti amministrativi di cui all’art. 25[21].

Valutato, comunque, il numero incredibilmente cospicuo degli attuali reati-presupposto della responsabilità dell’ente, il macro-dato che spicca è il seguente. L’ente risulta annotato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. nel 2013 nello 0,052% dei casi, nel 2014 nello 0,047% dei casi e nel 2015 nello 0,044% dei casi[22].

La magistratura requirente sostiene che il «trend [per cui] il numero [di annotazioni dell’illecito amministrativo] appare molto inferiore a quello dei c.d. reati “presupposto” […] deriva, in primo luogo, dalla scelta operata da molti P.M. di ritenere discrezionale l’iscrizione della persona giuridica […] tenendo presente che tale opzione è avallata da parte della dottrina che riconduce la discrezionalità alla natura amministrativa del relativo procedimento ex 231»[23].

Nondimeno, la dizione letterale dell’art. 55 co. 1[24] «richiede, quale unico elemento per far sorgere in capo al p.m. l’obbligo di annotazione, l’acquisizione di una notizia per uno dei reati presupposto della responsabilità degli enti contemplati dal decreto legislativo agli artt. 24-25-[sexiesdecies], ritenendo applicabile, anche con riguardo alla annotazione, i canoni elaborati in relazione alla corrispondente disciplina codicistica, secondo la quale, ai fini dell’iscrizione ex art. 335 c.p.p., basta un minimo di concretezza e di specificità, sufficiente a consentire di individuare nel fatto oggetto dell’informazione gli elementi essenziali di un reato, anche meramente ipotetico. Conseguentemente, ed analogicamente, l’annotazione dell’illecito amministrativo presupporrebbe soltanto l’ipotetica configurabilità a carico dell’ente di una responsabilità dipendente da reato, situazione che ricorrerebbe ogni qual volta una persona fisica, qualificata dalla posizione ricoperta in seno all’ente, ponga in essere uno dei reati di cui agli artt. 24-25-[sexiesdecies], senza che risulti l’esclusiva destinazione a proprio favore dei vantaggi conseguiti attraverso l’ipotizzata condotta criminosa»[25].

In conclusione, atteso che «il co. 1° dell’art. 55 ricalca sostanzialmente il co 1° dell’art. 335 c.p.p., che impone al p.m. di iscrivere immediatamente nell’apposito registro ogni notizia che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa […] il p.m. è tenuto ad annotare immediatamente nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. tutte […] le informazioni che costituiscono illeciti amministrativi»[26]. Né potrebbe essere altrimenti, attesi la chiarezza testuale dell’art. 55 co. 1 e il vincolo esegetico, comunque, posto dall’art. 12 co. 1 disp. prel., a norma del quale «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore»[27]. L’art. 55 andrebbe, dunque, interpretato «assimila[ndo] il significato proprio delle parole al significato letterale» o al «significato appropriato, adeguato della disposizione normativa», tenendo conto «della sintassi, ossia […] la relazione che intercorre tra le parole che compongono [l’]enunciato normativo», e «dell’intenzione comunicativa del legislatore, senza associarvi necessariamente uno o più scopi»[28].

Ciò posto, non è questa la sede per entrare nel merito del dibattito circa l’opportunità – rectius, l’inopportunità, che l’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI fermamente censura – dell’opzione legislativa di prevedere l’annotazione generalizzata di ogni categoria di ente incolpato, senza, cioè, tenere conto, ad esempio, del suo carattere dimensionale. Qui interessa, piuttosto, formulare un quadruplice ordine di apprezzamenti, in considerazione di quanto sopra.

In primo luogo, all’opposto di quanto sostenuto dalla magistratura requirente, la «scelta originaria del legislatore della responsabilità amministrativa» non «lascia ampio spazio [alcuno] alla discrezionalità delle iscrizioni»[29].

In secondo luogo, e conseguentemente, la «scelta operata da molti P.M. di ritenere discrezionale l’iscrizione della persona giuridica»[30] è compiuta al di fuori dei «confini tracciati congiuntamente dalle regole»[31] dell’ermeneutica e si rivela, quindi, non «discrezionale ma […] arbitraria»[32]. Ciò a dispetto dei dettati dell’art. 73 l. ord. giud. – a mente del quale «il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche […]» – e, prius, dell’art. 97 co. 1 Cost. (stabilito con riguardo agli uffici della pubblica amministrazione, ma che non può non valere anche per quelli giudiziari) – a norma del quale «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»[33].

In terzo luogo, «il ragionamento che sino ad oggi si è fatto che, per effettuare l’iscrizione, il P.M. deve prima verificare l’interesse o l’utilità dell’ente», oltre a essere vuoto di qualsivoglia fondamento normativo, rivela una discutibile interversione anzitempo del pubblico ministero da magistrato dell’accusa a quello della decisione. Infatti, «tale valutazione deve seguire e non precedere l’iscrizione (anche per permettere all’ente di difendersi) e comunque riguarda il merito della responsabilità che, qualora non venisse ritenuta, può e deve dare luogo all’archiviazione»[34]. Invece, in sede di annotazione dell’illecito amministrativo, «“un giudice che non è giudice” (in quanto privo del fondamentale requisito costituzionale della terzietà) […] governa […] questi spazi smisurati: li crea, li alimenta o li elimina a suo piacimento. Giovandosi della ricerca del consenso, pur non essendo eletto»[35]. «A parte i principi generali che attengono all’obbligatorietà dell’azione penale, questa scelta […] porta […] ad inammissibili disparità di trattamento»[36], in quanto la selezione dell’ente da annotare e di quello da “risparmiare” è, oggi, lasciata in balia delle scelte politiche – auto-concesse, arbitrarie e incontrollate – di un pubblico ministero «paragiudice»[37]. Scelte che possono tradursi nell’astensione dalle investigazioni nei confronti dell’ente “x” o nel mancato perseguimento di certi illeciti amministrativi o, all’opposto, nel perseguimento discrezionale dell’ente “y”[38]. «Una discrezionalità che con il tempo è divenuta sempre più visibile anche a causa delle crescenti dimensione e complessità dei fenomeni criminali»[39]. Che fine fa, però, l’eguaglianza, anche degli enti, di fronte alla legge penale?

In quarto e ultimo luogo – e, forse, più gravemente – la soluzione prospettata dalla magistratura requirente – «è in corso di studio una circolare che regolamenterà oggettivamente ed in maniera uniforme le iscrizioni»[40] – palesa un magistrato dell’accusa che tende a identificarsi, oltreché a quello della decisione, anche al legislatore stesso. Cioè un magistrato dell’accusa che, «governando la politica, pur essendo un funzionario […] [si] colloca […], di fatto, al vertice della produzione normativa, pur essendo un “burocrate”»[41].

In sintesi, risorse inevitabilmente limitate rispetto alla domanda di giustizia paiono implicare criteri di selezione tra le notizie di illeciti amministrativi dipendenti da reato da perseguire e quelle da pretermettere. In difetto di criteri di legge, la situazione attuale è, tuttavia, caratterizzata «dalla discrezionalità libera, cioè dall’arbitrio, delle singole Procure, che seguono criteri propri, talvolta dichiarati […] ma generalmente taciuti». Questa situazione contravviene anche all’art. 112 Cost. Anzi, «lo mette nel nulla»[42]. Perciò, «non sembra possa essere più a lungo lasciata alle dinamiche locali […] la fissazione di regole atte a definire rigorosi “paletti”»[43] in tema di annotazione e di contestazione dell’illecito amministrativo.

Il principio dell’obbligatorietà dell’annotazione e della contestazione dell’illecito amministrativo, nel significato con cui è asserito agli artt. 55 e 59, non richiede che per ogni notizia di illecito amministrativo dipendente da reato corrisponda un procedimento, bensì che, in base al principio di legalità declinato all’art. 2, questa selezione fosse condotta in modo trasparente sulla sola base di criteri stabiliti dalla legge. Anche di ciò si fa carico, all’art. 10, la Proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare[44].

La determinazione per legge di questi criteri non esprime, peraltro, una compressione dell’indipendenza funzionale esterna del magistrato dell’accusa[45]. Essa, al contrario, riporta la disciplina «entro la sfera della legalità, secondo la categoria della discrezionalità vincolata: una situazione di dovere determinato […] da valutazioni che in concreto il pubblico ministero deve svolgere sulla base di criteri di legge»[46].

2.2. Il giudice si fa pubblico ministero. Per converso, in sede di decisione, qualsivoglia struttura essa assuma[47], il giudice, anche a fronte di norme la cui formulazione è piuttosto ambigua e i cui significati risultano pure molto vaghi, incomprensibilmente inverte i fattori e frequentemente privilegia un’interpretazione stretta o strettissima. Si attiene, cioè, «al significato letterale, inteso come il significato più ovvio […], più immediato della disposizione normativa»[48]. Rinuncia, dunque, a reperire nell’articolato del d.legisl. 231/2001 significati congruenti rispetto a quelli espressi da altre norme del sistema giuridico[49] o dalla costruzione concettuale operata dalla dottrina[50] e, quindi, una coerenza logica di insieme.

In questo senso, si appunta l’indirizzo maturato nella giurisprudenza prevalente in tema, ad esempio, di contestazione dell’illecito amministrativo (art. 59) e di valutazione dei modelli di organizzazione e di gestione (artt. 6 e 7).

Quanto al primo aspetto, il giudice spesso tende ad accontentarsi di una contestazione dell’illecito amministrativo pressoché esangue e interamente impostata sulla sola tecnica del richiamo dell’imputazione della persona fisica. Ciò con buona pace di quanto prescritto all’art. 59 co. 2, a mente del quale la contestazione deve, invece, contenere, oltre agli elementi identificativi dell’ente e all’indicazione del reato da cui l’illecito dipende e dei relativi articoli di legge, anzitutto «l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che può comportare l’applicazione delle sanzioni amministrative» e «l’indicazione […] delle fonti di prova». È, infatti, in forza di un’interpretazione letterale stretta dell’art. 6 co. 1 che il giudice tende ad attribuire, in via esclusiva, all’ente incolpato, anziché al pubblico ministero, l’onere di riconoscere gli elementi costitutivi della potenziale colpa di organizzazione, per, poi, organizzare su di essi la strategia difensiva.

Ex plurimis: «è proprio l’esplicita previsione dell’inversione dell’onere della prova che induce a ritenere il reato già perfetto e completo in tutti i suoi elementi costitutivi allorquando ricorrano le condizioni di cui all’art. 5: reato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da parte di soggetto che rivesta al suo interno una posizione apicale[51]. Diversamente opinando, la prova dell’elemento costitutivo dell’illecito dovrebbe essere fornita, secondo le ordinarie regole, dall’accusa, mentre aver attribuito l’onere probatorio della sussistenza delle ridette condizioni alla persona giuridica ne evidenzia la loro natura di elemento impeditivo e cioè idoneo a paralizzare le conseguenze giuridiche connesse alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito. Quando il reato è commesso da un soggetto apicale il requisito soggettivo di responsabilità dell’ente è soddisfatto, giacché il vertice rappresenta ed esprime la politica di impresa. L’illecito amministrativo è, dunque, perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi. Ove così non fosse, dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, provando la sussistenza di una serie di condizioni concorrenti: l’assenza di una colpa di organizzazione, attraverso l’adozione di modelli operativi idonei ed efficaci; la vigilanza sulla effettiva operatività dei modelli e sulla loro osservanza; ma soprattutto dovrà dimostrare che il comportamento integrante il reato sia stato commesso dal suo vertice eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione, nonché l’attività di vigilanza, agendo infedelmente contro l’interesse dell’ente al suo corretto funzionamento. Non è sufficiente che si dia la prova dell’infedeltà dell’apice, occorre altresì che non sia ravvisabile alcuna colpa da parte dell’ente, il quale deve fornire la prova di avere adeguatamente vigilato, attraverso l’organo di vigilanza, al fine di assicurare la conformità delle decisioni dell’apice agli standard di legalità preventiva». In definitiva, «l’enunciato normativo è esplicito nel prevedere che tutte le concorrenti condizioni contemplate nelle lettere a), b), c) e d) dell’art. 6 comma 1, idonee ad esentare l’ente da responsabilità, siano oggetto di un onere della prova a carico dell’interessato (“l’ente non risponde se prova che”)»[52].

Adottando, nondimeno, criteri ermeneutici di coesione e di conformità sistemiche, può, invece, registrarsi che «la contestazione dell’illecito svolge inequivocabilmente, rispetto all’ente, l’identica funzione assegnata dall’ordinamento processualpenalistico all’imputazione rispetto alla persona fisica, così da potersi tranquillamente affermare che la stessa definisce l’oggetto del processo, delimitando i confini dell’accertamento e conseguentemente consentendo effettivo e concreto esercizio del diritto inviolabile di difesa»[53]. Se così è, come si crede, la contestazione ex art. 59 dovrebbe contenere, a «prescinde[re] dal riferimento ai singoli e diversi atti di esercizio dell’azione penale»[54], «l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che può comportare l’applicazione delle sanzioni amministrative», che è la colpa di organizzazione e, propriamente, lo specifico deficit organizzativo[55].

Quanto al secondo profilo, il giudice, in forza, ancora una volta, di un’interpretazione letterale stretta dell’art. 6, tende a considerare sempre integrata la colpa di organizzazione in caso di mancata o di imperfetta adozione o attuazione di un formale modello di organizzazione e di gestione. Tende, cioè, a non concedere all’ente, in caso di incolpazione per un reato-presupposto che si presume commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, di dimostrare in altro modo la corretta gestione organizzativa dei rischi aziendali in funzione esimente della responsabilità da reato.

Ex plurimis: «si deve considerare che il legislatore, orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali organismi l’obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale. Tali accorgimenti vanno consacrati in un documento, un modello che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. Non ottemperare a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa di organizzazione»[56]A fortiori ratione: «il rilievo di tale colpa di organizzazione si estrinseca […] nella mancanza di modelli di organizzazione e gestione, idonei a prevenire la commissione di reati […]. Cioè, l’ente non risponde del reato, se prova di avere adottato tali modelli, corredati di organismo di controllo ad hoc e l’onere di fornire tale dimostrazione incombe integralmente sulla difesa […]. Nel caso di specie […] non è mai esistito alcun modello organizzativo […], né esso è stato adottato […] dopo la scoperta dei fatti per cui si procede. Cosicché la questione è chiusa»[57].

Sempre in ragione di canoni esegetici di aggregazione e di concordanza sistemiche, questa tesi non è, tuttavia, da condividere. Il punto merita, infatti, un rapido chiarimento.

Vero è che il rischio che l’ente possa commettere illeciti amministrativi e possa esporsi alle conseguenti sanzioni non può, «a differenza di altri rischi di perdita derivanti dal fisiologico gioco del mercato, […] essere semplicemente “accettato” in base a una mera valutazione costi e benefici, ma deve essere senz’altro presidiato sì da ridurlo al minimo (per quanto possibile)»[58]. Ugualmente vero è che, nella materia in argomento, «il modello organizzativo sia uno strumento posto a tutela di interessi pubblici, che ovviamente non sono nella libera disponibilità degli amministratori»[59].

Fermo, dunque, che i rischi-reato vanno ridotti il più possibile, ciò può, nondimeno, avvenire anche mediante soluzioni organizzative diverse rispetto all’adozione di un formale modello di organizzazione e di gestione ex artt. 6 e 7[60], che appare, quindi, come «una delle possibili modalità di corretta gestione preventiva dei reati»[61], talora neppure preferibile in relazione alla singola realtà[62]. Pure essendo gli amministratori vincolati nell’an della valutazione e della mitigazione, entro soglie di accettabilità, dei rischi-reato, gli stessi conservano, infatti, una certa discrezionalità nella scelta del quomodo[63]. Detto altrimenti, «a parità di risultato finale (ovvero di riduzione al minimo del rischio) è ben possibile selezionare misure organizzative più in linea con le esigenze dell’impresa, evitando l’adozione del modello organizzativo ex artt. 6-7 in tutti i casi in cui il relativo contenuto “minimo” sia ultroneo rispetto alle concrete esigenze di prevenzione»[64].

Dunque, l’adozione di un formale modello di organizzazione e di gestione «non solo non costituisc[e] un obbligo (giuridicamente sanzionato in sé), ma neanche l’unica modalità operativa […] attraverso la quale l’ente può adempiere all’obbligo di corretta direzione e vigilanza». Ne consegue, in conclusione, che «l’assenza o la ritenuta inidoneità (cartacea) del modello organizzativo non dovrebbe comportare, ipso iure, il riconoscimento della colpa di organizzazione in capo all’ente, che “nei fatti” potrebbe avere adeguatamente adempiuto comunque agli obblighi di vigilanza, attraverso controlli o prassi operative in concreto applicate nelle dinamiche aziendali, sebbene non adeguatamente formalizzate e recepite nell’ambito di specifici modelli di organizzazione»[65].

Volendo tirare le somme rispetto alle disfunzioni processuali del tipo di quelle che si sono sopra esemplificate, l’analisi dello scenario esibito dalla pratica giudiziaria nell’ultimo ventennio di applicazione del d.legisl. 231/2001 evidenzia questo dato. In sede di valutazione dei modelli di organizzazione e di gestione, il giudice, muovendo dalla contestazione dell’illecito amministrativo, tende ad “appiattirsi” sulle asciutte petizioni del pubblico ministero. Ciò documentano le sentenze di condanna ex art. 69, numericamente preminenti rispetto alle sentenze di esclusione della responsabilità dell’ente ex art. 66, abitualmente corredate di motivazioni telegrafiche e “in miniatura”.

In breve, quali che siano le reali dinamiche del caso particolare, «ciò che emerge è la mancanza di autorevolezza dell’effettività del controllo giurisdizionale, non percepito come affidabile» nella fase di valutazione della colpa di organizzazione e, propriamente, dello specifico deficit organizzativo. «Non c’è dubbio». Casi singoli, quelli menzionati, «sovraespost[i], esplicitat[i] anche in modo inesorabile, ma emblematic[i] di una realtà diffusa», in cui gli enti incolpati e i loro difensori «subiscono troppo spesso il cosiddetto “appiattimento” del giudice sul pubblico ministero a causa della carenza di controllo giurisdizionale, non compensata da forze di bilanciamento esterne al processo»[66]. «Non c’è niente di più marcatamente partisan di questo modo di procedere»[67], che indubbiamente va, al postutto, a incidere in maniera decisiva sulla possibilità di concreto ed effettivo esercizio del diritto di difesa dell’ente. Ma tutto ciò, lo si ribadisce, è patologia.

3.Conclusioni. Il testo del d.legisl. 231/2001 è incredibilmente ricco di criticità. Si tratta di una legge «incerta, priva di organica sistematicità: anzi, è lo stesso legislatore che, incapace di sciogliere importanti nodi di disciplina, affida decisioni salienti alla concreta applicazione della magistratura»[68]. Il d.legisl. 231/2001 e, a nostra scienza, tutte le leggi straniere che disciplinano la responsabilità dell’ente sono tutt’altro che perfette. L’evidenza è, da tempo, consolidata e anzitutto su di essa si appunta il lavoro di proposta riformatrice dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI.

L’imperfezione del d.legisl. 231/2001 è, tuttavia, solo in piccola parte la causa del gravissimo stato di cose sopra ritratto. Ciò occorre, alla soglia del ventennio di vigenza del d.legisl. 231/2001, dirselo con franchezza, apertis verbis. La presunta discrezionalità dell’annotazione dell’illecito amministrativo, la tendenza, in sede di sua contestazione, a non enunciare, in forma chiara e precisa, gli elementi identificativi dell’illecito dell’ente dipendente da reato della persona fisica e la valutazione della colpa di organizzazione unicamente in termini di adozione ed efficace attuazione di un formale modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, senza, cioè, darsi la pena di indagare le concrete dinamiche aziendali che operano oltre i confini del mero formalismo cartolare della c.d. paper compliance policy, descrivono, infatti, il risultato non già – o, quanto meno, non primariamente – di un difetto nelle norme, bensì dell’atteggiamento, sopra tratteggiato, ricorrente, in misura capillare, tra i magistrati dell’accusa e quelli della decisione. Il problema non è, quindi, solo di leggi, ma anche di magistrati. È qui che il discorso si fa difficile e delicato perché mette in comunicazione premessa e conclusione.

Questo atteggiamento (di “laissez faire, laissez passer” rispetto alla pretesa discrezionalità dell’annotazione dell’illecito amministrativo e alla volatilità della relativa contestazione, da un lato, e di ostinazione verso una forma di responsabilità dell’ente conchiusa entro il solo perimetro di un formale modello di organizzazione e di gestione, dall’altro lato) ha, infatti, almeno una causa e un effetto.

La causa dell’atteggiamento di “assistenza biunivoca” intercorrente tra magistrati dell’accusa e della decisione nell’ambito del procedimento penale a carico dell’ente è, ineluttabilmente, destinata a rintracciarsi «nella figura stessa di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e pubblici ministeri. […] Che tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l’arbitro e il giocatore». Ciò che difetta è, cioè, «una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta all’efficienza e all’equilibrio di ogni sistema ordinamentale e istituzionale democratico, complesso e aperto». Quella «“inimicizia” […] che fa sì che un potere controlli l’altro e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di “amicizia” ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni»[69].

L’effetto dell’assimilazione tra magistratura requirente e giudicante è tutto a detrimento della difesa dell’ente. Quanto all’annotazione dell’illecito amministrativo, le sorti procedimentali dell’ente in termini di incolpazione sono, infatti, indivisibilmente avvinte al grado di profondità, imperscrutabile e pienamente discrezionale, della c.d. “cultura della legalità” del singolo pubblico ministero[70]. Quanto, invece, alla contestazione dell’illecito amministrativo e alla valutazione dei modelli di organizzazione e di gestione, la difesa dell’ente, moderno Don Chisciotte della Mancia, si trova a scontrarsi contro “giganti invisibili” (i.e. la contestazione che non esplicita i criteri oggettivi e soggettivi di incolpazione e l’insanabile pregiudizio tale per cui l’avvenuta consumazione stessa del reato-presupposto certificherebbe l’inidoneità del formale modello di organizzazione e di gestione[71]), riducendosi, così, a mero flatus vocis[72]. Ne consegue, all’evidenza, il rovesciamento del principio secondo cui, «nel processo penale liberale, la condanna dell’imputato [sia esso persona fisica o giuridica] può essere pronunciata solo quando la sua responsabilità – così come ogni altro elemento da cui dipende la misura della pena – sia provata al di là di ogni ragionevole dubbio, altrimenti l’imputato [persona fisica o giuridica] deve essere prosciolto»[73].

Per tutto quanto sopra espresso, l’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI, anche rilevato lo straordinario potere di condizionamento delle sorti dell’impresa e dell’economia in generale fisiologicamente connesso al diritto penale e alle consuetudini mediatiche che lo sostengono e ferma restando la cennata necessità di porre mano al testo del d.legisl. 231/2001 mediante una riforma ragionata, organica e sistemica della disciplina della responsabilità dell’ente, indica nella separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante la precondizione per ricondurre a conformità costituzionale anche la disciplina di tale responsabilità.

L’Osservatorio UCPI sul D.Lgs. 231/2001

[1] Il presente articolo è stato scritto da Vittore d’Acquarone, avvocato del foro di Verona, solicitor UK e co-responsabile dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’Unione delle camere penali italiane, e da Riccardo Roscini-Vitali, avvocato del foro di Verona e cultore della materia in diritto processuale penale presso il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Verona, è stato revisionato dal delegato di Giunta, avv. Daniele Ripamonti, e dal co-responsabile dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001 dell’UCPI, avv. prof. Giulio Garuti, ed è stato condiviso dai componenti dell’Osservatorio D.Lgs. 231/2001.

[2] R. ORLANDI, La separazione delle carriere. Opinioni a confronto, in Criminalia, 2008, p. 217. Sul punto, cfr. anche G. SPANGHER, Riforma dell’ordinamento giudiziario e separazione delle carriere, in Giust. pen., 6, 1, 2003, c. 162.